Max Headroom, venti minuti nel futuro

A più di trent’anni dalla sua creazione fa uno strano effetto pensare a quel curioso personaggio che fu Max Headroom; il suo successo non è mai stato replicato e il suo modello non è più stato riproposto in un mondo ormai invaso da idoli che sembrano esistere solo nello spazio televisivo, il che è bizzarro per un personaggio nato appunto come pura essenza tv.

Nel 1985 Max viene presentato come “il primo conduttore TV generato al computer”. In realtà, l’intervento del computer è minimo, data la complessità per la tecnologia CG dell’epoca di generare un intero personaggio in tempo reale; l’immagine di Max è quella dell’attore Matt Frewer, pesantemente truccato e con indosso una lucida giacca in fibra di vetro, sovraimpressa a uno sfondo in chroma key; la ripresa è poi distorta con effetti decisamente analogici come disturbi elettronici e montaggio frenetico per dare l’idea di generazione in qualche modo approssimativa e sottoposta a errori.

Max Headroom

La prima apparizione di Max Headroom avviene in un breve film per la tv britannica Channel 4, Max Headroom: 20 Minutes into the Future, forse la prima storia cyberpunk concepita per la televisione. La trama di 20 Minutes riguarda l’indagine di Edison Carter, un reporter d’assalto che svela un progetto segreto per trasmettere i Blipverts, pubblicità così potenti e compresse da essere in grado di fare letteralmente esplodere gli spettatori. Carter viene catturato dai cattivi di turno, guidati dal perfido direttore del Network 23, il canale tv per cui lo stesso Carter lavora, e la sua memoria copiata in un computer. Successivamente Carter riesce a fuggire ai suoi sequestratori; parallelamente, anche il suo doppione digitale in qualche modo “evade” e, grazie a un piccolo canale televisivo, diventa autocosciente e libero di muoversi per l’etere.

Max Headroom

Il sorprendente inizio del film è interamente composto da sequenze già girate con un altro mezzo: la prima ripresa sui titoli è una dissolvenza atttraverso l’effetto neve di un televisore; la storia viene raccontata esclusivamente con l’uso della telecamera che riprende in diretta la soggettiva del protagonista oppure da spezzoni di video di sicurezza a circuito chiuso, videotelefoni, rendering computerizzati di mappe di città ed edifici. Ciò che viene mostrato nei primi minuti è una ripresa di seconda mano, materiale di riciclo e scarto recuperato, in un’assenza di materiale “puro”.

Max Headroom

Scarto è anche il desolante panorama della città del futuro, una immensa periferia cosparsa di macerie abitate da un’umanità che pare sopravvissuta a un disastro e da cui si ergono mucchi di televisori inspiegabilmente accesi e funzionanti. I rifiuti e i detriti sono ovunque, anche a ridosso delle banche dei corpi, depositi semiclandestini dove i cadaveri sono venduti e smembrati per il mercato dei trapianti.

Max Headroom

Bryce Lynch, il consulente al servizio del Network 23, è un giovane hacker, inventore dei Blipverts e di personaggi generati al computer; è lui che ricostruisce l’alter ego digitale di Carter, che poi evolve in Max Headroom, partendo da una scansione della sua memoria. Ed è un duello tra hacker, Bryce e Theora, guida di Carter, quello che avviene elettronicamente tra i corridoi dell’emittente televisiva, spostando da remoto ascensori, aprendo o chiudendo porte, controllando le videocamere, cercando di contrastare o aiutare l’opera del giornalista tv.

Max Headroom

Hacker, o quanto meno “smanettone” è anche Blank Reg, il gestore di una piccola rete televisiva in cui il cassone elettronico che contiene l’essenza di Max viene recuperato e ospitato e la cui sede ambulante è un camion; Blank è anche un pirata anagrafico, non essendo registrato negli onnipotenti computer governativi.

Max Headroom

Il vero protagonista paradossalmente si mostra molto poco ma le sue apparizioni sono fulminanti: Max Headroom compare sullo schermo del televisore, ha una parlantina rapida e caustica e, anche se in preda a una specie di balbuzie digitale, fa battute a raffica; la sua immagine è disturbata, interrotta, si blocca in piccoli loop, accelera o rallenta inaspettatamente; sembra il figlio del difetto, un postumano nato da un guasto elettronico più che un idolo voluto e creato, la smagliatura di un mondo, quello televisivo, che dovrebbe apparire lucido e perfetto ma che sotto una superficie visivamente attraente mostra la realtà dell’imperfezione o dell’orrore. Con il suo essere interferenza, segnale di intromissione, Max rivendica uno spazio libero del palinsensto e una sua estetica, il gusto per il disturbo visivo e dialettico.

Dopo il film, il personaggio Max Headroom gode di un breve ma intenso periodo di successo internazionale, in cui il nostro si esibisce come veejay, ironico commentatore degli avvenimenti, intervistando star della musica, del cinema e della tv, e finendo per essere a sua volta intervistato come ospite al David Letterman Show, a cui ovviamente partecipa attraverso un televisore. Al primo film segue una serie tv, poi interrotta a causa del confronto diretto con colossi come Dallas e Miami Vice. Max appare poi, direttamente o citato, in vari film e videoclip.

Nel 1987 Max Headroom è anche involontario e indiretto protagonista di un episodio di hacking televisivo, soprannominato appunto Interferenza di Max Headroom, in cui alcuni ignoti riescono a inserirsi nelle trasmissioni di due emittenti di Chicago, interrompendole per qualche minuto con una sequenza in cui uno di loro, travestito da un fin troppo irriverente Max, recita frasi apparentemente senza senso e conclude facendosi sculacciare.

Tetsuo, l’arma umana di Shinya Tsukamoto

Tetsuo

(Altro riciclo di vent’anni fa dalla rivista Betarelease)

Un uomo si addentra di nascosto in una vecchia officina cadente. Cumuli di spazzatura metallica lo circondano. L’uomo prende un tubo zigrinato e se lo spinge a forza dentro una ferita aperta nella gamba. L’uomo urla. La ferita si riempie di vermi che divorano carne e metallo.

E’ questo l’inizio di Tetsuo, film indipendente a bassissimo costo del regista giapponese Shinya Tsukamoto.

In Tetsuo e nel suo sequel/remake Tetsuo II: Body Hammer due uomini si trovano ad affrontare l’inesorabile metamorfosi del proprio corpo. Improvvisamente, del metallo comincia a emergere da sotto la pelle; il corpo assorbe in maniera inscindibile altro metallo dall’esterno. I due diventano degli uomini-macchina, capaci di sparare micidiali proiettili dalle braccia e di sfrecciare a velocità incredibili.

Tetsuo

Nei due film troviamo molte delle paure della fine di questo millennio: l’oppressione tecnologica, la mutazione genetica, la claustrofobia del monolocale nel grattacielo, la perdita dell’identità individuale. L’ossessionante tecnologia che ci circonda si fonde e si integra con la biologia. La morte dell’uomo macchina è la corrosione e per evitarla non gli resta altro che inglobare sempre nuovo materiale.

Il cambiamento non è solo fisico ma anche mentale. Piano piano si fa strada il richiamo a una missione da adempiere, o forse la consapevolezza di una volontà: il metallo si assomma ad altro metallo, la carne ad altra carne; e il multi-uomo-macchina finale è pronto a marciare sul mondo per trasformarlo in una massa di acciaio.

Se il corpo si trasforma, altrettanto fanno i sensi. Lo sguardo, l’udito ma anche la memoria si fanno elettronici e la loro rappresentazione è una vera e propria estetica del disturbo. Così la voce è un cavernoso rimbombo, l’orecchio trasmette schianti metallici al cervello trasformato in circuiti di fil di ferro. Il flashback cinematografico dell’uomo-macchina è un monitor pieno di interferenze, di neve elettronica attraverso cui i ricordi appaiono distorti, accelerati, riavvolti. La memoria è una cassetta inserita in un videoregistratore guasto.

Tetsuo II

Entrambi i film sono ricchi di sequenze frenetiche al limite del subliminale: in pochi decimi di secondo vengono condensate decine di situazioni diverse, punti di vista opposti, visioni del corpo dall’interno e dall’esterno. Il disturbo elettronico si traduce nel nostro cervello in un continuo sovraccarico di impulsi che stordiscono e disorientano. I colori sottolineano la mutazione: in Tetsuo, in bianco e nero, la fusione ha i toni dei livelli di grigio. Al contrario, i colori di Tetsuo II distanziano la carne, calda e rossa, dal metallo, freddo e blu.

Ai due Tetsuo corrispondono due diverse visioni della città. Nel primo film vediamo un insieme di case basse, piccole fabbriche in rovina, cumuli di rifiuti industriali abbandonati: un tessuto urbano post-industriale in decomposizione ma pur sempre originariamente pensato e costruito a misura d’uomo. La metamorfosi del corpo dell’uomo-macchina diventa parte del disfacimento del corpo-città, una struttura costretta a soccombere alla propria entropia: come nell’Europa dopo la pioggia di Max Ernst, architetture ed esseri viventi diventano indistinti e confusi, collassando in una sostanza unica e imprecisata.

In Tetsuo II la città è gigantesca, asettica, immutabile, perfetta e disumana, corpo alieno tanto alla carne quanto al metallo: grattacieli di cui non si riesce a vedere la fine, rilucenti ipermercati della civiltà dei consumi, metropolitane dove tutto può accadere nell’indifferenza più totale di imperturbabili viaggiatori. Ma tra quei grattacieli Shinya Tsukamoto è nato e cresciuto e, pur trasmettendo una ossessione claustrofobica per la mega-città di cemento, la rappresenta comunque con colori tenui, prevalentemente sfumature azzurre che la immergono in una atmosfera irreale.

“Non per odio ma per amore”: gli “Orfani” della Sergio Bonelli

Orfani

Sono colpevole: da tempo immemore ormai non frequentavo la scuderia Bonelli, dopo essere stato per più di dieci anni un accanito fan di Dylan Dog dalle sue origini e successivamente aver soltanto dato uno sguardo distratto qua e là a successive creazioni come Nathan Never e Gea. Nel frattempo Sergio Bonelli se n’èandato e il mondo nato con Tex è fortunatamente arrivato indenne alla sua terza generazione. Su segnalazione del buon Giovanni Boccia Artieri ho scoperto Orfani con cui sto piacevolmente espiando le mie colpe.

Da quasi un anno in edicola, Orfani è il primo albo del nuovo corso bonelliano, che prevede tra l’altro il rilancio di Dylan Dog in versione rivisitata, con ricambio di personaggi, stili e tematiche.

Che Orfani sia una svolta per la Bonelli si vede sin dai primi numeri: un diverso segno grafico, per di più completamente a colori, il passaggio da episodi autoconclusivi a serie annuali (per il momento ne sono previste almeno due), un linguaggio più attuale, mutuato dal cinema, il tutto unito a una violenza inusuale per la casa editrice milanese.

Orfani

L’ambientazione è post-apocalittica, dopo che una catastrofe planetaria, un’immensa luce che ha travolto e distrutto buona parte dell’Europa, ha precipitato l’umanità in un’epoca oscura. Il mondo futuro è quello cupo di film come Terminator o Appleseed, costellato da macerie, mancanza di ordine, spietate persecuzioni e ribellioni. Ambienti e tecnologie macinano gli ultimi trent’anni di immaginario cinematografico, fumettistico e videoludico americano e giapponese, con citazioni continue, dai bambini-cavie di Akira di Katsuhiro Otomo ai marine ipertecnologici di Aliens di James Cameron. La grafica spettacolare trasforma gli ambienti in monocolori accesi, ora rossi, ora blu, con il freddo dello spazio e delle città in rovina che si contrappone al calore delle armi e degli amori.

Orfani

La storia scritta da Roberto Recchioni si svolge su due livelli temporali, seguendo l’evoluzione dei personaggi da bambini superstiti del disastro, orfani appunto, e contemporaneamente da adulti trasformati in macchine da guerra, attraverso uno spaventoso addestramento militare e le successive missioni.

I dialoghi sono serrati, senza battute superflue, come se non ci fosse spazio per altro, con punte di cinico umorismo che si contrappongono alla freddezza degli ordini.

Orfani

I protagonisti, il cui folto numero all’inizio può disorientare, vengono via via falcidiati in un crudele gioco a eliminazione alla dieci piccoli indiani, in cui i personaggi scompaiono uno dopo l’altro, quasi mai per mano nemica quanto piuttosto per i severi allenamenti e i sempre più accesi scontri interni tra eroi che si trasformano da amici in rivali. Sì, perché tra i tanti dubbi che Orfani insinua il più tremendo è la scelta sulle parti da prendere: immersi nella liquidità postmoderna, senza indirizzo o fonti di informazioni affidabili, i “piccoli e spaventati guerrieri” si trovano spesso a dover decidere con chi schierarsi, a stabilire dove stiano il bene e il male, abbandonati nella guida e negli affetti, avendo come unici strumenti di discrimine se stessi e la propria coscienza.

Orfani

I confini dei sentimenti, lealtà, amicizia, amore, vacillano e si sfaldano di continuo, in un gruppo in cui prevalgono di volta in volta la scelta individuale, la fedeltà a un’istituzione o a un’ideale; ognuno segue una propria idea di verità, faticosamente costruita in un’infanzia di orrore e di duro addestramento oltre i limiti dell’umano, che costringe menti e corpi a una continua, dolorosa e a volte letale mutazione.

Il lettore, travolto dai continui cambi di campo dei singoli personaggi, si trova a dover scegliere a sua volta da che parte stare; in Orfani non vengono proposte chiare e definitive distinzioni tra buoni o cattivi: siamo noi a decidere quali siano gli eroi e quali le canaglie e spesso un improvviso ribaltamento ci costringe a rivedere le nostre posizioni; sembra sempre esserci un’accusa, un errore e parimenti una scusa e una giustificazione per tutti. Ognuno opera a modo suo per la salvezza dell’umanità, anche attraverso l’annientamento altrui o la propria autodistruzione; nonostante il desiderio di vendetta imperi, in genere è l’amore, e non l’odio, a guidare le loro azioni.

La pubblicazione è stata preceduta, altro fatto inedito per la Bonelli, dalla pubblicazione di un numero zero, una raccolta di illustrazioni scaricabile on line in formato Pdf che potete trovare sul sito ufficiale. Il resto, vivamente consigliato, in edicola o come arretrati.

Il suono del Cyberpunk: Ghost in the Shell Stand Alone Complex

Ghost in the Shell: Stand Alone Complex

Il Cyberpunk non è un genere musicale: può aver ispirato estetiche e sperimentazioni ma difficilmente si può applicare l’etichetta “cyberpunk” ad artisti o album.

Si può invece esplorare il vasto panorama delle musiche che compaiono nei prodotti cyberpunk, in quanto citate nei romanzi e parte dell’atmosfera della storia o come colonne sonore di film e produzioni tv.

Ghost in the Shell: Stand Alone Complex OST

Ottimo esempio del secondo gruppo è la colonna sonora di Ghost in the Shell: Stand Alone Complex. Scritta da Yoko Kanno, già compositrice per anime come I cieli di Escaflowne e Cowboy Bebop, la musica mescola abilmente atmosfere e stili completamente diversi tra loro. Se i viaggi interplanetari di Cowboy Bebop erano accompagnati dal country-jazz, la Terra del 2030 di Ghost in the Shell: SAC echeggia di influenze multiculturali, con brani hip-hop, fusion, metal, dance, in un melting pop sonoro che fa da contrappunto, ora drammatico e diegetico, ora ironico e divertito, alle avventure dei membri della Sezione 9 e alla loro lotta contro cyborg impazziti, criminali informatici, spie industriali, terroristi ipertecnoligizzati.

Ghost in the Shell: Stand Alone Complex OST

Testi in più lingue, tra cui anche russo e italiano, strumenti tradizionali frammisti a sperimentazioni elettroniche: ne esce un wall of sound compatto e variegato, una esplorazione della musica dei nostri giorni proiettata in modo divinatorio verso un ignoto futuro. Così come la serie anime diretta da Kenji Kamiyama affronta temi come il postumano, il confine tra biologico e meccanico, la perdita di identità, allo stesso modo Yoko Kanno colora le partiture di limiti da superare ed eccessi, al confine dell’indistinguibile tra generi musicali attuali e futuri, tra suoni umani e suoni delle macchine.

La soundtrack è pubblicata in diversi album e comprende buona parte dei brani delle due serie e del successivo film tv. Da segnalare in particolare, oltre alle due sigle di apertura cantate dalla russa Origa, Inner Universe e Rise, la metallica Run Rabbit Junk, Where Does This Ocean Go che ricorda la Björk di Post, la ballad Some Other Time, I Can’t Be Cool cantata da Ilaria Graziano, la funkeggiante GET9.

H.R. Giger, l’alieno biomeccanoide

Ripubblico qui un articolo che scrissi ormai quasi vent’anni fa per la rivista Betarelease. H.R. Giger se n’è andato dopo aver popolato il nostro immaginario di meravigliosi mostri.

Siamo tutti insettoidi estranei, nascosti nei nostri corpi urbanoidi. I quadri di Giger che mostrano la carne, i suoi paesaggi al microscopio, sono segnali di una mutazione.
Timothy Leary

Se Alien di Ridley Scott è diventato uno dei maggiori successi della fantascienza cinematografica, molto è dovuto a Hans Ruedi Giger, che ne ha disegnato le scenografie e ha progettato l’insidioso parassita extraterrestre che divora i membri dell’equipaggio dell’astronave Nostromo.

Alien

Nato nel 1940 in Svizzera, Giger è un artista quanto mai eclettico: oltre che ad Alien, ha lavorato a molti altri film di fantascienza. Ma è soprattutto pittore e scultore. Titoli di opere come Biomeccanoidi o Erotomechanics riflettono bene una estetica del metallo che si stempera nella carne, dell’arto che si prolunga nella simulazione bionica, di se stesso o di qualcos’altro.

Nei quadri di Giger, lo sfondo si ibrida spesso con i soggetti ritratti, inglobandoli e nutrendosene. E a volte sono gli stessi soggetti a costituire lo sfondo dell’opera, come nella serie dei Paesaggi biomeccanici. Ossa ed eso-endoscheletri al titanio, carne e membrane elastiche, tubi e vene emergono indifferenziati a costituire corpi-macchina, corridoi di nervi e muscoli, cyborg torturati, organi sessuali per travasamenti in serie che sembrano usciti dal Mondo nuovo di Huxley.

Li II

Le tele gigantesche spruzzate con l’aerografo sono veri e propri ipertesti che illustrano la “trasmigrazione biomeccanica dell’anima” (titolo di un quadro di Giger), la mutazione dei nostri corpi e dei nostri strumenti in una nuova entità. Come un cancro creatore, il metallo degli oggetti di cui ci circondiamo si insinua sotto la pelle e ci modifica, arricchendo i nostri corpi di nuovi, infiniti sensi.

The Spell I

Le strutture raffigurate nelle opere di Giger sembrano parti di immense macchine, di cui gli esseri viventi sono parte integrante. E l’artista non sembra essere attratto tanto dalla funzione della macchina, quanto dalla sua fattibilità, almeno artistica. Ma la visione, pur in apparenza da incubo, non è da vedersi in chiave pessimistica, come profezia di una tecnologia che asserve l’uomo. Come ha scritto Timothy Leary, “… in queste opere ci vediamo come embrioni striscianti, come creature fetali, larvali, protette dall’involucro dei nostri ego, in attesa del momento della metamorfosi e della rinascita… Giger ci dà il coraggio di salutare il nostro io insettoide”.

Cronologia di una mutazione

1940 – Nasce a Chur, Svizzera.
1960 – Costruisce la Camera nera.
1964 – Realizza gli Atomkinder.
1966 – Termina la scuola di artigianato e allestisce la prima mostra personale a Zurigo.
1969 – Vengono stampati i primi poster da opere di Giger, tra cui Biomeccanoidi 1969.
1971 – Viene pubblicato ARH+, il primo catalogo delle sue opere.
1973 – Disegna la copertina del disco Brain salad surgery di Emerson, Lake & Palmer.
1976 – Lavora al progetto del film Dune.
1977 – Comincia a lavorare ad Alien.
1979Alien viene presentato al pubblico a Hollywood. Davanti al cinema troneggia un’enorme quadro di Giger realizzato per il film.
1980 – Giger riceve l’Oscar per gli effetti speciali di Alien.
1981 – Dipinge la serie di quadri N.Y. City.
1983 – Viene invitato come ospite d’onore ai festival del cinema fantastico di Bruxelles e Madrid.
1985 – Realizza varie scene per Poltergeist II.
1986 – La rete televisiva tedesca ZDF realizza un documentario dal titolo L’universo fantastico di H.R. Giger.
1987 – Mostra di opere di Giger in Giappone, alcune delle quali appositamente ralizzate. Nasce Biomechanoid 87, il fanclub giapponese dedicato a Giger.
1988 – A Tokyo viene realizzato il primo Bar Giger.
1990 – Lavora ad Alien III.
1995 – Lavora al film Specie mortale.
1996Visioni di fine millennio: mostra di opere di Giger a Milano.

Gigerjargon

Alien – Film di fantascienza diretto da Ridley Scott nel 1979. Giger realizzò scenografie e il costume dell’alieno, di cui Carlo Rambaldi mise a punto i movimenti meccanici.
Atomkinder – Bambini atomici. Serie di disegni a china apparsi su varie riviste scolastiche.
Camera nera – Sorta di “tunnel dell’orrore”, con scheletri e mostri vari animati da Giger e dai suoi amici, per il “divertimento” dei visitatori
Dune – Progetto per un film di fantascienza tratto dalla omonima saga letteraria di Frank Herbert. Giger realizzò dipinti e disegni preparatori. Il progetto venne poi abbandonato dal regista Alexandro Jodorowsky per mancanza di finanziatori. Il film venne in seguito realizzato da David Lynch, senza H.R. Giger.
Poltergeist II – Film dell’orrore diretto nel 1986 da Brian Gibson, seguito del primo Poltergeist di Tobe Hooper. Nonostante il discreto successo, Giger si dichiarò insoddisfatto della realizzazione visuale dei suoi progetti.
Specie mortale – Film di fantascienza di Roger Donaldson, per il quale Giger crea l’aliena Sil.

Sulla mutazione del postumano

Ghost in the Shell, di Mamoru Oshii

In relazione al cyberpunk si parla spesso di mutazione del corpo, per indicare come i confini tradizionali della carne vengano spostati o messi in discussione dal processo di ibridazione uomo-macchina.

Più che a una mutazione del corpo dovremmmo riferirci a una mutazione della definizione di “corpo”, ovvero che cosa intendiamo con tale termine. Il corpo è storicamente “un costrutto culturale” (Caronia/Gallo, Houdini e Faust), terreno di lotta sociale, di rivendicazione libertaria e identitaria ben prima dell’avvento di quelle tecnologie che ci portano oggi a parlare di postumano.

A cambiare è quindi ciò che siamo disposti ad accettare come definizione condivisa di corpo, con la sua fisicità, il suo essere altro dalla carne, i suoi diritti sociali; la mutazione coinvolge il confine di quello che possiamo definire come corpo sede di una identità.

Blade Runner, o video ergo sum

Il test Voight-Kampff in Blade Runner

C’è un’immagine ricorrente in Blade Runner: l’occhio domina lo schermo fin dalla sequenza di apertura e ritorna ciclicamente in tutto il film. Il test Voight-Kampff osserva la dilatazione della pupilla; il gufo fasullo della Tyrell Corporation ha un occhio ancor più fasullo; nella ricerca della loro origine i replicanti passano dal costruttore di occhi; Roy indossa per scherzo degli occhi giocattolo; il creatore-padre Tyrell viene accecato prima di essere ucciso.

L’occhio e, quindi, l’atto dell’osservare e del ricordare diventano sinonimi di identità. La Tyrell pensa di poter controllare i suoi prodotti dotandoli di falsi ricordi, di una vita iniettata che ne determina i comportamenti e ne rende prevedibili le emozioni. Rachael ha una foto che la rappresenta con la madre: si tratta di un falso a cui la replicante, inconscia del proprio essere, si attacca come ultima difesa della sua umana identità, che cede di fronte alla dimostrazione di Deckard che le svela i suoi stessi ricordi più intimi. Leon si fa scoprire perché ha dimenticato le foto che si porta dietro, come una specie di album-ricordo della sua breve vita.

Vedo, dunque ricordo e sono. I replicanti non dovrebbero aver bisogno di fotografie, ma queste diventano documenti prova dell’umanità dell’essere artificiale, supporto di esperienze reali o mai vissute che cementano la loro esistenza in un blocco di realtà accettabile e dimostrabile. Morendo, Roy elenca le esperienze vissute che andranno perdute con la sua morte “come lacrime nella pioggia” e si tratta di esperienze esclusivamente visive. “Ho visto” diventa un “J’accuse” a difesa del diritto alla vita postumano in un film che è un accumulo di immagini del futuro che si fanno realtà condivisa per gli spettatori.

Marilyn Manson, o il fascino grottesco della borghesia

Marilyn Manson

Il giovane studente Brian Warner cerca più volte di farsi espellere dalla Heritage Christian School, che odia, ma non ha fatto i conti con i sani princìpi del sistema scolastico privato: la famiglia Warner infatti paga regolarmente la retta; ogni provocazione di Brian, per quanto spinta, gli guadagna solo qualche misero giorno di sospensione. Con il tempo Brian metabolizza il concetto: confezionare e vendere la provocazione per i figli di una borghesia ottusa e bigotta.

A vent’anni assume il nome d’arte “maledetto” di Marilyn Manson e fonda il suo gruppo rock, con l’ottimo Twiggy Ramirez al basso e soprattutto l’accorta supervisione di Trent Reznor, che inietta nella band il sound dei Nine Inch Nails.

Marilyn Manson si costruisce una carriera basata sul suono e sull’immagine: il primo mischia metal, industrial e grunge, suggestioni pop, punk e dark; la seconda dipinge un mutante per tutte le occasioni, con arti smisurati, gli occhi dai colori diversi e impossibili, la pelle anemica di un vampiro, androgino o asessuato, vestiti dai colori chiassosi o stracci corrosi da futuri fallout nucleari.

Manson provoca con un linguaggio forte, con dichiarazioni a volte contraddittorie sull’uso delle droghe, sulla violenza e sulle armi, dichiarazioni così dirette a stupire da rivelarsi spesso solo battute affrettate e inconcludenti. Ma quando abbandona la figura del “maledetto a tutti i costi” è capace anche di osservazioni lucide e assennate, come quando Michael Moore lo intervista nel suo film Bowling a Columbine, dopo che, a seguito del massacro della Columbine High School, diversi gruppi dei soliti benpensanti se la sono presa con i “messaggi violenti” del “rock satanico” e non, stranamente, contro la cultura USA delle libere armi.

La trilogia centrale di Manson è la sua produzione più interessante, sorta di lungo concept album in tre puntate, accompagnato da videoclip ai confini dell’horror, del grand guignol teatrale o della fantascienza, non innovativi ma sempre ben curati, come nel caso di The Dope Show, della dissacrante Disposable Teens o della cover sofferente e disperata di Sweet Dreams degli Eurythmics.

In Antichrist Superstar il suono sporco e duro celebra la nascita e mutazione di un rocker, Disintegrator, che passa da verme apatico ad angelo sterminatore; ossessioni paranoiche, chitarre distorte che si fondono con sintetizzatori rochi e ritmiche ossessive. Con Mechanical Animals l’angelo diventa un alieno che tenta di redimere il mondo, in uno stile glam rock che richiama un altro alieno, il David Bowie dell’Uomo che cadde sulla Terra; l’album, dai suoni fastosi e magniloquenti, trova in se stesso la sua nemesi, con gli attacchi ai “sistemi” delle droghe e dell’industria discografica. Il terzo disco, Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death), è la storia di una sconfitta: l’angelo Manson appare crocefisso e putrefatto, messia abbandonato dal mondo per cui ha cercato di vivere e che ora maledice. Per bizzarra coincidenza, è l’album di minor successo della band, coinvolta nel vortice delle accuse mediatiche post Columbine. La musica si ripiega su se stessa, tornando a essere quella cupa degli esordi alla “no future”.

Alla trilogia segue poco di interessante: Marilyn Manson, stanco o a corto di idee, si accontenta di innocue celebrazioni del grottesco e della decadenza del capitalismo e dipinge acquarelli, non appare più in grado di provocare e offendere più, se non al massimo qualche teocon particolarmente stupido. In attesa di una resurrezione, l’alieno pare avviato a una deriva verso il pop più becero e commerciale. Se oggi ci tocca sentire Lady Gaga mentre facciamo la spesa al supermercato forse è anche colpa sua.

Scanners, il corpo mutante

La maledizione del potere

Cameron Vale è un deviante che vive ai margini della società, cibandosi degli avanzi dei tavoli dei fast food, osservato con ribrezzo dalla clientela “rispettabile”. Ha un potere eccezionale, ma questo potere è anche la causa prima della sua emarginazione.

Scanners

Come in Scanners, spesso i poteri degli (anti)eroi di David Cronenberg si portano dietro anche una maledizione; a volte questa è il destino che vogliono o sono costretti a seguire; a volte è il corpo che crolla, beneficiario e al tempo stesso vittima di una evoluzione che non è in grado di sopportare. Le nuove capacità fisiche di Seth Brundle portano i segni devastanti dell’ibrido insettiforme. La preveggenza di Johnny Smith implica il suo sacrificio per evitare un futuro catastrofico per l’umanità. La Nuova Carne, causa ed effetto delle allucinazioni, si sviluppa come una escrescenza tumorale nel cervello di Brian O’Blivion. La telepatia permea la testa di Cameron Vale e di Darryl Revok di voci estranee che possono essere messe a tacere solo ricorrendo a sempre più potenti dosi di Ephemerol, farmaco-ponte per il paradiso/inferno. I gemelli Beverly e Elliot Mantle non possono che portare all’estrema fisicità la loro simbiosi empatica, scambiandosi le vite quando fa loro comodo ma costretti a lasciarsi permeare l’uno dalla tossicodipendenza e dalla malattia dell’altro.

La punizione, o il premio finale, per aver toccato il cielo o aver visto il volto della Gorgone, è immancabilmente, la solitudine, la morte, la dissoluzione. In questo, tutti i protagonisti di Cronenberg sono soli con la loro mente e con il loro corpo, ognuno in lotta con la sua personale mutazione, diversi e costretti all’esilio sociale, fino all’inevitabile scomparsa.

Scanners

Scanners termina con un corpo consumato, distrutto, carbonizzato: l’ultima forma “pura” di Cameron Vale o di Darryl Revok o di tanti altri protagonisti cronenberghiani: l’ultimo respiro della Brundlefly mischiata alla telecapsula, l’ultimo stadio della videoparola fatta carne, l’ultima crisalide fallita.

La mia arte. Il senno.

Scanners

Il cinema di Cronenberg è spesso cinema sulla creazione artistica, sulle sue cause e scopi: arte che riflette su altra arte, mente che riflette su altre menti. I personaggi sono animati da volontà speculativa, dal desiderio di contemplare, comprendere e indirizzare la loro mutazione anche attraverso l’osservazione delle mutazioni altrui.

Il protagonista di Videodrome rilancia e concretizza nella videoarena allucinatoria le sue fantasie e le sue pulsioni, che a loro volta lo trasformeranno, riversandosi nella ferita/vcr-slot del video-uomo. Il Brundle-fly della Mosca vive in un laboratorio che perde giorno dopo giorno il suo aspetto scientifico e diventa atelier, alla ricerca del senso della carne e sperimentando una riproduzione-ricostruzione della natura, scopo dell’arte classica. Il ginecologo Beverly Mantle di Inseparabili si fa realizzare da un artista speciali strumenti chirurgici di sua ideazione “per operare sui mutanti”, che non possono in alcun modo essere utili per operare e quindi privi di ogni funzione. In Pasto nudo, i rapporti dall’Interzona diventano metafora della catarsi del romanzo per lo scrittore Bill Lee, affetto dalla “malattia” (tossicodipendenza della scrittura) e costretto a infilare le dita nelle macchine per scrivere che hanno l’aspetto di giganteschi scarafaggi. I feticisti dell’automobile di Crash sono all’ansiosa ricerca della loro possiiblità d’espressione, che trova una via nel tentativo di riprodurre incidenti stradali il più possibile fedeli agli originali.

Scanners

In Scanners il telepate Benjamin Pierce trova nell’arte l’alternativa all’Ephemerol, unico farmaco in grado di mettere il silenziatore alle voci che affollano la sua mente: come molti artisti (gli espressionisti tedeschi come punto di riferimento non solo stilistico) si esilia dalla società che lo opprime, soffocando la sua personalità individuale e invadendola con il “sentire” collettivo, e proietta nelle sue opere, al contempo cercando di liberarsene, i ricordi, le immagini che lo ossessionano: scienziati folli, trapanazioni cerebrali, volti che piangono sangue che si riversa in un cranio aperto e vivo.

Scanners

Per Cameron Vale l’unico modo di comprendere la strada intrapresa dallo scultore è quello di entrare nel suo cervello, telepaticamente, fisicamente e metaforicamente, attraverso l’enorme scultura della testa coricata (una musa tutt’altro che addormentata) in lavorazione nella casa di Pierce. E’ in questo modo che, appena in tempo ma comunque troppo tardi, entra in contatto con l’ultima espressione dell’artista, il momento della sua morte, il suo grido per quella vita da cui ha sempre cercato di fuggire. Ma Vale non è un artista e dell’artista non riesce a condividere la visione, troppo sciamanica e troppo distaccata dalla realtà per apparirgli razionalmente accettabile; la sua mutazione è destinata a seguire un percorso diverso.

Lo sguardo sull’invisibile

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Per quanto possa sembrare paradossale, data l’abbondanza di effetti speciali, Scanners è un film sull’invisibile, su una realtà di per sé irrappresentabile, su qualcosa che sta oltre i nostri sensi di comuni mortali e non può quindi essere portato direttamente sullo schermo. Azione e dialoghi sono spesso telepatici, i personaggi si introducono di continuo l’uno nella mente dell’altro, con una mimica e una verbalità ridotte, ma a tratti necessariamente eccessive. Assistiamo quindi a una serie di comportamenti involontari a cui è impossibile opporsi: smorfie, tremiti, malori, emorragie, epistassi, soffocamenti; le vene si gonfiano come muscoli, esplodono; i corpi cedono all’autocombustione; il cervello erutta la pressione e la mutazione nella carne.

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La colonna sonora lascia spazio al rumore bianco, si riempie di voci che si fanno via via sempre più indistinguibili, fino ad ammucchiarsi in un caos di basse frequenze confuse. Sono le voci degli altri, che penetrano immanenti nei pensieri; sono la nemesi delle voci nella testa di Spider, che moltiplicano e spostano all’esterno le soggettive, aggiungendo all’orrore per se stessi, per la propria diversità, l’orrore di essere guardati.

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In un film sull’invisibile l’ultimo passo dello scontro supremo è la perdita della vista: gli occhi sbiancano, si liquefanno, esplodono. Il massimo impulso telepatico corrisponde alla cecità, alla rinuncia a tutti gli altri sensi, alla chiusura rispetto al mondo normalmente percepibile.

Il corpo rivoltato

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Una testa che esplode: la dimostrazione dei poteri di uno scanner durante quello che avrebbe dovuto essere solo un esperimento di telepatia. Si tratta di una delle scene più sorprendenti di Scanners, entrata nella storia del cinema e che contraddice il principio hitchockiano sul pubblico informato di ciò che sta per avvenire. Un impatto regolato al massimo che annulla ogni possibile crescendo emotivo e che ci dice che d’ora in poi tutto è possibile.

Nel cinema di Cronenberg non sono pochi i corpi, umani, animali, biomeccanici, che vengono rivoltati, rigirati a mostrare l’interno, in un tentativo di esporre l’inconciliabilità di bellezza esteriore e interiore (il ginecologo di Inseparabili vorrebbe un premio per la bellezza interiore della sua paziente). L’interno del corpo, con il suo affollamento di pensieri, pressione, gente, mostra carne sulla quale bisogna impararare. E i personaggi di Cronenberg sembrano lì per esplorare e conoscere, come lo scienziato Brundle di fronte al rinnovamento del suo fisico, come i gemelli Mantle quando esaminano le loro pazienti e poi la patologia che li colpisce, come il dottor Keloid con i suoi tessuti sperimentali. E’ all’interno del corpo che può annidarsi l’insetto, il demone, il parassita, la zona morta, il tumore, la videocassetta di carne che programma le nostre allucinazioni, il doppio mascherato.

Il corpo/corporazione

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William Gibson ci ha insegnato che le aziende sono forme di vita; Cronenberg non è da meno e, a modo suo, le descrive come corpi affetti da una malattia che li porta ad autodivorarsi e a lottare con i propri gangli. Il governo, lo Stato, l’ordine costituito nei suoi film sono quasi sempre assenti. Al loro posto si materializzano grandi società dai nomi bizzarri e altisonanti, scopi misteriosi e strutture impalpabili ma tuttavia costantemente presenti. Sono aziende farmaceutiche, come la ConSec o la Biocarbon Almalgamate, ottiche, come la Spectacular Optical di Videodrome, o produttrici di videogame, come l’Antenna Research di eXistenZ.

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Sono occhi multipli che ci spiano, che ci sottopongono a esperimenti, che sanno dove siamo in ogni momento, ma che a volte, per incuria, distrazione, disinteresse, perdono il controllo. Le decisioni sembrano talvolta prese in giganteschi grattacieli da individui senza personalità, da segreti consigli di amministrazione, da azionisti. Ma quelle che vediamo sono solo coperture, pedine che del comando hanno solo l’illusione. Il potere, la volontà, ammesso che esistano realmente e che siano attribuibili a una entità definita, risiedono da qualche altra parte, in sotterranei spogli o in capannoni abbandonati.

I corridoi della ConSec di Scanners sono bianchi, immacolati. Ma la moquette rossa, colore-feticcio di Cronenberg (rosse e ben poco rassicuranti sono persino le uniformi dei medici di Inseparabili), ci suggerisce che sotto c’è il sangue, il pericolo, il fuori controllo.

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